venerdì 12 dicembre 2025

da Il Manifesto del 04/12/2025 

Noi insegnanti, i nemici dell’istituzione famigliare

di Leonardo Tondelli

C’è stato un momento – circa cinque anni fa – in cui noi insegnanti all’improvviso ci siamo sentiti di nuovo importanti. Ricordate? A causa di un virus molto pericoloso, le scuole di ogni ordine e grado erano state chiuse da qualche settimana.

Quando intellettuali e politici di ogni schieramento cominciarono a invocare il ritorno della scuola in presenza, fondamentale baluardo di civiltà. Qualcuno arrivò persino a distorcere le statistiche per dimostrare che le scuole aperte non avrebbero aumentato il contagio: o forse un po’, ma non così tanto; e comunque ne valeva la pena. I ragazzi avevano bisogno della scuola, molto più di quanto tutti avessimo bisogno della salute. E doveva essere una scuola reale, di cemento, con lavagne in ardesia e gessetti: un simulacro virtuale non avrebbe funzionato. Per quanto ogni cosa ormai si possa fare on line, la scuola no: la scuola doveva prendersi i vostri figli verso le otto e restituirli dopo mezzogiorno. Fu un periodo complicato, ma esaltante, in cui forse molti colleghi si illusero di avere recuperato un minimo di dignità: inoltre, se la scuola era davvero così importante, forse i governi si sarebbero decisi a rifinanziarla.

Cinque anni dopo, è chiaro che le cose non sono andate così. Ce ne accorgiamo ogni giorno, mentre aderiamo alla spicciolata agli scioperi che i sindacati non riescono a organizzare nello stesso giorno. Ci hanno calato lo stipendio, anche se non si può dire perché la cifra in busta è un po’ aumentata: però il bonus docenti è bloccato da settembre, un trucco contabile che ci fa sospettare che il governo non sappia più dove raccattare risorse. Sui giornali più di tanto non se ne parla; per un mese la notizia più chiacchierata è stata quella di una famiglia che piuttosto di mandarci i figli li lasciava nel bosco, in balia di animali selvaggi e funghi velenosi. Molti liberi pensatori ne hanno apprezzato la scelta; sembrano gli stessi che quattro anni ci intimavano di riaprire subito le scuole, ne andava della salute mentale dei ragazzi. Nel frattempo la camera ha approvato il disegno di legge che ci proibisce di attivare progetti di educazione sessuale/affettiva senza il consenso dei genitori. C’è una battaglia culturale in atto, e noi siamo un obiettivo, semplicemente perché facciamo il nostro lavoro, o almeno ci proviamo. Scopriamo di essere i nemici dell’istituzione famigliare, che sulla sessualità dei propri figli ha l’ultima parola. Come succede in battaglia, c’è una differenza sostanziale tra la propaganda – aneddoti piccanti di lezioni tenute da drag queen e pornoattori – e la situazione sul campo: un campo dove i ragazzi l’educazione sessuale se la fanno da soli, vivendo negli stessi ambienti per cinque ore al giorno; con risultati insoddisfacenti, se gli esperti ci dicono che le malattie sessualmente infettive sono in aumento nella fascia dei più giovani.

Così se mi domando cosa vuole da me la società, la risposta è la stessa: prendermi i loro figli alle otto e restituirglieli dopo mezzogiorno. Il fatto che per queste quattro o cinque ore si ritrovino assieme, in aule non troppo spaziose, a contatto con coetanei di sessi e culture diversi, è un nodo che devo sbrigliarmi da solo, sapendo che in qualsiasi momento potrei dover fare rapporto ai genitori. Potrò portare i miei studenti al consultorio? Solo se sono d’accordo: e dovrò organizzare un’attività a costo zero per gli studenti che restano a scuola: la legge mi obbliga a farlo, ma per ora non stanzia un soldo. Se ne staranno su un divanetto a trescare, magari qualcuno qualche cosa la imparerà. Molto spesso i genitori che non firmano l’autorizzazione sono quelli che provengono dai contesti in cui la sessualità degli adolescenti è un tabù. Valditara ha un bel da insistere che il suo decreto non nega a nessuno l’educazione sessuale: nei fatti la sta togliendo proprio alle famiglie che non osano parlarne, ai figli che vivono in famiglie abusanti che quell’autorizzazione non la firmeranno mai; alle ragazze a cui i genitori hanno già combinato un matrimonio (sì, succede, molto più spesso di quanto ne parlino i giornali), ai ragazzi che vivono in un contesto violento e non hanno strumenti per gestire la propria rabbia. Che sia questo che la società mi chiede, senza avere il coraggio di metterlo per iscritto?


da Pressenza del 09/12/2025

Vescovi, pace e nonviolenza

da Redazione Italia


Sul quotidiano on line ‘Italia informa’ un interessante articolo di Cristina Volpe sul documento (34 pagine, https://share.google/qATRwxyrO02YgIsT1) della Conferenza dei vescovi italiani su pace, nonviolenza e (novità) ruolo dei cappellani militari da ripensare (cosa da molti anni proposta da Pax Christi Italia), punto su cui molti quotidiani non hanno parlato, tranne ‘il Fatto quotidiano’. Ve ne proponiamo alcuni passi.


“C’è qualcosa di radicale nella Nota Pastorale diffusa dalla Conferenza episcopale italiana: un documento che invita a “educare a una pace disarmata e disarmante” mentre il mondo torna a parlare un linguaggio di cannoni, deterrenza, riarmo, competizione strategica.

È come se la Cei si ostinasse a riannodare i fili di una tradizione spirituale che resiste al rumore crescente delle armi e rivendica il diritto di non lasciarsi trascinare nell’inevitabilità della guerra.

“La pace esige un no deciso alla logica bellica”, scrive la Cei.
Non una formula astratta, ma un richiamo a un linguaggio diverso, non “per vincere”, ma “per convincere”.
È la riproposizione, in epoca di conflitti che sembrano non conoscere tregua, di una postura minoritaria: quella che rifiuta il presunto realismo dei carri armati, dei fondi speciali per il riarmo, delle equazioni che legano sicurezza e potenza, capacità di difesa e produzione militare.

Il documento insiste: “La difesa, mai la guerra”.

Ma in un contesto politico in cui governi e opinioni pubbliche ricorrono sempre più spesso alla guerra come strumento di risoluzione dei conflitti, l’affermazione appare come una sfida, quasi un’intollerabile provocazione per gli adoratori dell’ineluttabile.

La difesa della patria oltre le armi

La Cei chiama in causa don Lorenzo Milani, emblema di un pacifismo scomodo, refrattario alle facili pacificazioni retoriche.
E riafferma un principio che il dibattito pubblico sembra avere dimenticato: “La difesa della patria non si assicura solo con le armi”, ma “con la cura della civitas”, attraverso obiezione di coscienza e servizio civile.

In un’Italia in cui la discussione sulla leva obbligatoria riemerge ciclicamente, questo passaggio suona come una presa di posizione controcorrente: la sicurezza non come muscolatura militare, ma come investimento nella coesione sociale, nella responsabilità civile, nella qualità democratica della convivenza.

La presenza nelle forze armate

C’è anche un capitolo dedicato alla presenza ecclesiale tra i militari.
La Cei guarda “con gratitudine” ai cappellani, ma pone una domanda impegnativa: è possibile immaginare forme di testimonianza meno direttamente integrate nella struttura militare, per rendere più libero e più credibile l’annuncio della pace proprio nei contesti dove la logica delle armi è più forte ?

È un interrogativo che ha il sapore di un bilancio: il riconoscimento di un ruolo importante, ma anche la percezione che la missione della Chiesa rischi di restare imprigionata in una cornice istituzionale che non le appartiene del tutto.

L’economia di guerra e l’Europa del riarmo

Il documento dedica alcune delle sue pagine più dure alla produzione e al commercio di armi.
Non è solo una denuncia etica: è una contestazione politica.
La Cei chiede di rafforzare i controlli, limitare le triangolazioni, vigilare sulle esportazioni verso Paesi coinvolti in azioni offensive o a rischio di violazioni dei diritti umani.
E soprattutto invita l’Unione Europea a imboccare una strada opposta rispetto alle sirene del piano “ReArm Europe”: non una deregolazione, ma un’“agenzia unica” per il controllo dell’industria militare, un meccanismo comune che limiti la corsa agli armamenti, non che la assecondi.

La speculazione sugli armamenti

Il testo va oltre: chiede una presa di distanza da investitori e operatori finanziari che sostengono l’industria militare, alimentando – consapevolmente o meno – quella “economia di guerra” che rischia di diventare una componente strutturale dei mercati globali.
In un sistema in cui i titoli dell’industria bellica crescono a ogni nuova tensione geopolitica, la Cei propone una sorta di sobrietà finanziaria: non trasformare il conflitto in opportunità di rendimento. Anche questo suona fuori moda, ma proprio per questo particolarmente incisivo.

Un messaggio controcorrente

Il documento della Cei, più che una proposta programmatica, è un esercizio di resistenza culturale.
Un invito a guardare oltre l’urgenza del momento, oltre la fascinazione per la forza, oltre il “non c’è alternativa” che sembra dominare lo spirito del tempo.
Un appello che può suscitare dissenso, irritazione o scetticismo. Ma che ha il merito di ricordare che la pace – quella vera – passa anche attraverso la capacità di dire no quando tutti dicono sì.


da Il Manifesto del 03/12/2025

La notte degli operai ex ILVA 

mentre Taranto affonda

di Francesco Bagnardi


Si riaccende la protesta degli operai dell’Ilva e dell’indotto. Fabbriche ferme e blocchi stradali a Genova e a Taranto. Sciopero a oltranza: l’unico piano del governo è dividere il destino degli impianti del nord da quelli del sud. Ma Meloni si fa i complimenti: occupazione record.

A un passo dalla dismissione, è esplosa la protesta nel sito ex Ilva di Taranto. Gli operai hanno fermato l’unico altoforno ancora in funzione, fin quasi a spegnerlo. Poi la lotta è ripresa all’interno dell’impianto. Fino al presidio notturno: falò e cibo per far passare la nottata. <<Se non arriva una nuova convocazione da palazzo Chigi da qui non ci muoviamo>>. Ma la realtà è che le imprese del nord non hanno più bisogno di Taranto.

La protesta negli stabilimenti ex Ilva di Genova, Novi Ligure e Racconigi è andata avanti ieri, per il secondo giorno. E anche a Taranto è ripresa la mobilitazione. Fiom, Fim, Uilm e Usb tarantini hanno proclamato uno sciopero a oltranza a partire dalle 12 di ieri. La protesta è iniziata dentro la fabbrica dove qualche centinaio di operai ha bloccato i binari tra Afo4 - l’unico altoforno ancora in funzione - e l’acciaieria. Nel frattempo, una cinquantina di operai dava inizio a un presidio alle porte del palazzo della direzione centrale, ormai blindato, in attesa di istruzioni dai colleghi dentro.


da Il Fatto Quotidiano del 04/12/2025

“Corpi di palestinesi sepolti nella sabbia dalle ruspe Idf”

di Rant



L’esercito israeliano ha sepolto con bulldozer i cadaveri di palestinesi uccisi a Gaza, senza identificarli. Una violazione del diritto internazionale, ricostruita ieri da un’inchiesta della Cnn per un caso specifico, ma che sarebbe stata osservata in molte altre occasioni, durante i due anni di conflitto che hanno martoriato la Striscia. L’incidente analizzato dalla Cnn risale al 15 giugno, a nord di Gaza City. In quel periodo Israele aveva brevemente aperto il valico di Zikim, noto anche come “Erez Ovest”, mentre si era nel pieno dell’indignazione internazionale per la fame e l’occidente premeva per aumentare l’afflusso di camion umanitari. Il valico di Zikim aveva riaperto da tre giorni (sarà richiuso il 12 settembre), quando una folla di palestinesi si raduna attorno a un tir e lo circonda. L’idf apre il fuoco e alcuni gazawi restano a terra. La Cnn ha verificato video che mostrano le persone fuggire sotto il fuoco di mitragliatrici e il camion ribaltato.

A questo si aggiungono le testimonianze di sei autisti di tir e della squadra di soccorritori della protezione civile palestinese accorsi sul luogo. Sotto il sole, i corpi si decompongono rapidamente e diventano preda dei cani. Nessuno di questi cadaveri è stato mai fotografato per consentirne l’identificazione, come prevederebbero le convenzioni sui diritti umani in contesti di guerra. I testimoni hanno parlato di bulldozer israeliani che “a volte spazzavano via i cadaveri nella sabbia”. Le immagini satellitari di Cnn hanno confermato il resto: “Parte dell’attività dei bulldozer sembra essere legata alla pulizia della via di accesso agli aiuti, spesso disseminata di detriti”, scrivono i cinque reporter che firmano l’articolo, ma “in altri momenti, le immagini satellitari mostrano attività di demolizione senza uno scopo chiaro”. Le istantanee dall’alto sono rafforzate dalle testimonianze dell’associazione israeliana Breaking the silence, che raccoglie in modo anonimo racconti di soldati su potenziali crimini commessi contro i palestinesi. 

Un militare dell’idf ha raccontato a Cnn che, all’inizio del 2024, il comandante ha ordinato a una ruspa D9 di “coprire con la sabbia” nove corpi di palestinesi disarmati lasciati a decomporsi per due giorni intorno alla sua base.

L’idf ha negato di aver mai usato i bulldozer per occultare cadaveri a Gaza (ma solo per operazioni di demolizione e “logistiche”). Ma secondo Breaking the Silence i casi sono molti. Basta scorrere la cronaca per alimentare i dubbi. Nel noto caso di Hind Rajab, per esempio, quando i reporter sono arrivati sul posto in cui erano stati uccisi la bambina di 5 anni, la sua famiglia e i paramedici arrivati per soccorrerli, hanno trovato che l’auto della famiglia e l’ambulanza erano state schiacciate da una ruspa, e i corpi erano parzialmente coperti dalle lamiere. Nel video che documenta la controversa uccisione di due presunti miliziani a Jenin, in West Bank, giorni fa (freddati dopo essersi arresi), si vede intervenire un bulldozer che abbatte l’ingresso dell’edificio in cui i due palestinesi erano asserragliati, buttando macerie sui loro corpi.

Anche nell’archivio online Bearing Witness of Gaza, creato dall’accademico israeliano Lee Mordechai, si trovano altri elementi: “Non è una pratica nuova, il nostro archivio è in via di completamento ma i casi così sono molti”, ha confermato Mordechai al Fatto.

Il 17 marzo del 2024, per esempio, i soldati israeliani hanno ucciso un 65enne che attraversava la buffer zone di Netzarim. Subito dopo un bulldozer è intervenuto per seppellire il corpo vicino al check-point.


ABITARE IL VUOTO COME VIA DI CRESCITA

Abbiamo scoperto che il vuoto, sia nella fisica che nella vita, non è semplice assenza, ma un terreno fertile di possibilità. Comprendere e abitare questo vuoto, attraverso concetti come il vuoto fertile e la Negative Capability, ci permette di accogliere l'incertezza, trasformare i conflitti e i dubbi in passaggi di crescita e scoprire che la connessione con noi stessi, con gli altri e con il mondo ha tante vie, tante  possibilità a cui occorre garantire lo spazio mentale che serve a lasciare che si manifestino e crescano.

“Forse proprio lì, nel cuore del vuoto, si nasconde il segreto dell'universo” (Guido Tonelli)

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Rosella De Leonibus

ROCCA 1 GIUGNO 2025

giovedì 11 dicembre 2025

VIVERE CON SICUREZZA

 

Quando grido il mio dolore,

tu, o Dio di giustizia, rispondimi!

Tu solo sai consolare i miei gemiti,

poiché rimani l'amico fedele,

disposto ad accogliere il mio lamento.

 

Ma voi, potenti della finanza,

esperti dell'economia,

gestori della politica:

fino a quando il vostro arcano linguaggio nasconderà

il disprezzo dei piccoli e degli umili,

anestetizzati dalle vostre menzogne?

 

Tremate, sapendo che il Signore

conosce la perfidia dei vostri discorsi,

il vuoto vano dei vostri slogan.

La notte, sui vostri giacigli, riflettete!

 

Signore, la tua luce è forza per noi!

Al nostro cuore hai dato la gioia

più pura di quella del vino di festa.

Nessuno potrebbe offrire altrettanto.

Tu solo fai vivere la sicurezza.

 

Paul Jubin - "Promesses de libération”

Da Riforma - 30 Settembre 2025 

3 ottobre, a Lampedusa il ricordo delle vittime


Sull’isola un momento interreligioso in memoria delle 368 persone morte nel naufragio del 2013 e per tutte quelle che continuano a perdere la vita nel Mediterraneo

Si intitolerà “Luci di speranza” la commemorazione interreligiosa promossa per il 3 ottobre a Lampedusa. La organizzano, come ogni anno, nel giorno del grave naufragio accaduto al largo dell’isola siciliana nel 2013, Mediterranean Hope, programma migranti e rifugiati della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei), l’Ufficio per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso dell’Arcidiocesi di Agrigento, la parrocchia San Gerlando di Lampedusa, con la partecipazione dell’Unione delle comunità islamiche d’Italia.

 

L’appuntamento, nato per ricordare le 368 vittime ma anche tutte le persone morte e disperse nel Mediterraneo, si svolgerà presso la parrocchia di Lampedusa alle ore 18.

«Come ogni anno siamo a Lampedusa come chiese protestanti in Italia, insieme a chi vuole unirsi a noi, per ricordare il naufragio di dodici anni fa – spiega il pastore Peter Ciaccio, membro del Consiglio della Federazione delle chiese evangeliche in Italia -. Oltre a essere stata una tragedia immane, è un avvenimento simbolo di quanto continua a succedere ora: migliaia e migliaia di persone muoiono in questo tratto di mare perché non vogliamo accoglierle, perché le nostre leggi vietano loro modalità legali e sicure di viaggio, perché c’è un largo consenso affinché accada qualunque cosa pur di non “farli venire qui”. È una delle tante tragiche ingiustizie che avvengono oggi nel mondo, ma è una delle poche dove noi, italiane e italiani, possiamo effettivamente fare qualcosa per evitare che accadano. In questo caso particolare, non ci è concesso di dichiarare la nostra impotenza: possiamo e dobbiamo accogliere queste persone e, insieme a loro, costruire una società più giusta per tutte e tutti».

 

Alla celebrazione parteciperanno lo stesso pastore Ciaccio, Sara Comparetti, vicepresidente della Fcei, le operatrici e i volontari di Mediterranean Hope, la coordinatrice del progetto Marta Bernardini, il direttore dell’Ufficio ecumenismo e dialogo interreligioso dell’Arcidiocesi di Agrigento Luca Camilleri, il parroco di San Gerlando Carmelo Rizzo e l’imam Kheit Abdelhafid, vicepresidente dell’Unione delle Comunità islamiche d’Italia.

luoghi e spazi del nostro pianeta e che ci richiama alla perdita del senso di pietà, di misericordia e di solidarietà che attanaglia il modo di vivere di noi occidentali.stesse democrazie sono nate e si sono sviluppate.
Ne è una dimostrazione l’annuncio dato qualche giorno fa dell’imminente arrivo del possibile vaccino. L’euforia maggiore non è stata delle persone e delle comunità che vedono finalmente una luce accesa in fondo al tunnel, ma delle borse mondiali a dimostrazione di come l’economia, e la finanza soprattutto, siano il modello che guida la nostra vita.


da Pressenza del 06/12/2025

Mai più catene. La lotta per l’abolizione della schiavitù è un impegno collettivo

di Javier Tolcachier


Javier Tolcachier, argentino, umanista da lungo tempo, è ricercatore dal Centro Mondiale di Studi Umanisti; analizza per Pressenza i fatti dell'America Latina. Ha scritto numerosi saggi sulla situazione mondiale, sulla storia latinoamericana, sulla Cina.


Contrariamente a quanto si potrebbe supporre, secondo le ultime stime dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), il lavoro forzato e i matrimoni forzati sono aumentati notevolmente negli ultimi cinque anni. Nel 2021 c’erano 10 milioni di persone in più in condizioni di schiavitù moderna rispetto al 2016, per un totale di 50 milioni in tutto il mondo, con donne e bambini tra i più vulnerabili.

La schiavitù è oggi presente in quasi tutti i Paesi del mondo e attraversa tutte le linee etniche, culturali e religiose. In netto contrasto con quanto potrebbe affermare il senso comune, secondo i dati forniti dalle Nazioni Unite, più della metà (il 52%) di tutti i lavori forzati e un quarto di tutti i matrimoni forzati si verificano in Paesi a reddito medio-alto o alto.

Alcuni dati che rendono conto della portata di questo flagello:

Circa 50 milioni di persone sono soggette alla schiavitù moderna: circa 28 milioni al lavoro forzato e 22 milioni ai matrimoni forzati.

Quasi una persona su otto sottoposta a lavoro forzato è un bambino o una bambina (3,3 milioni). Più della metà di loro è vittima di sfruttamento sessuale a fine di lucro.

La maggior parte dei casi di lavoro forzato (l’86%) si verifica nel settore privato.

Quasi quattro persone su cinque sottoposte a sfruttamento sessuale a fine di lucro sono donne o bambine.

Oltre a ciò, la schiavitù ha assunto oggi forme più sottili. Le dolorose catene di un tempo sono state sostituite da catene più sottili e meno visibili, ma quasi altrettanto opprimenti. L’appropriazione dell’intenzionalità della maggior parte degli esseri umani da parte delle minoranze è ancora presente e va denunciata in tutte le sue sfaccettature come una violenza inaccettabile.

Se si considerano le restrizioni nelle scelte esistenziali a cui tutte le persone sono sottoposte da un sistema che non privilegia l’essere umano come valore centrale, si può affermare che è ora di lottare non solo per l’abolizione delle forme più terribili di schiavitù e servitù, ma anche per il superamento stesso di un sistema violento e, nella sua essenza, schiavizzante.

Questo articolo fa parte della campagna “No más cadenas” (“Mai più catene”), lanciata da Pressenza con l’obiettivo di smuovere le coscienze e ottenere l’abolizione definitiva di ogni forma di schiavitù.

Traduzione dallo spagnolo di Stella Maris Dante.
Revisione di Anna Polo


Vieni, vieni chiunque tu sia, sognatore, devoto, vagabondo, poco importa.
Vieni anche se hai infranto i tuoi voti mille volte.
Vieni, vieni, nonostante tutto, vieni.


Rumi


da Pressenza del 05/12/2025

Rapporto CENSIS: 

il 66% degli italiani è contro il riarmo

di Giovanni Caprio


Per il CENSIS, che stamani, 5 dicembre, ha presentato a Roma il suo 59° Rapporto sulla Situazione Sociale del Paese, ci siamo inoltrati nell’età selvaggia, del ferro e del fuoco. Un’età che spinge il 30% degli italiani a ritenere che le autocrazie siano più adatte allo spirito dei tempi. Una convinzione inaudita, che indebolisce la già precaria democrazia. Il Grande Debito inaugura poi, per la fondazione di Giuseppe De Rita, il secolo delle società post-welfare. L’Italia spende per interessi 85,6 miliardi e gli interessi pagati superano non solo la spesa per i servizi ospedalieri (54,1 miliardi), ma l’intero valore degli investimenti pubblici (78,3 miliardi) e ammontano a più di dieci volte quanto l’Italia spende in un anno per la protezione dell’ambiente (7,8 miliardi). La vulnerabilità è accresciuta dal fatto che i titoli del debito pubblico italiano sono in mano prevalentemente a creditori residenti all’estero: il 33,7% del totale (ovvero più di 1.000 miliardi), a fronte del 14,4% detenuto dalle famiglie e del 19,2% dalla Banca d’Italia. Il Grande Debito inaugura il secolo delle società post-welfare. “Ma senza welfare, sottolinea il CENSIS, le società diventano incubatori di aggressività e senza pace sociale le democrazie vacillano. Per l’81% degli italiani è ora di punire i giganti del web che sfuggono alla tassazione”. Secondo il 72% degli italiani la gente non crede più ai partiti, ai leader politici e al Parlamento, mentre si assiste a un capovolgimento dei ruoli nel rapporto tra élite e popolo. “Da una parte, annota il CENSIS nel suo ultimo Rapporto, ci sono i leader europei – il nostro nuovo pantheon politico – con i volti sgomenti come pugili suonati, sotto i colpi sferrati da est e da ovest. Invece di rassicurare, esercitando la tradizionale funzione dell’offerta politica, eventualmente con il ricorso spregiudicato alla menzogna, annunciano la catastrofe, ci mettono davanti al pericolo di morte: la guerra imminente, la irrimediabile perdita di competitività del continente, l’ineluttabile deriva demografica, la marea inarginabile dei migranti, il collasso climatico. Dall’altra ci sono gli italiani, per i quali non è scattato l’allarme rosso: l’apocalisse può attendere. Non si segnalano tentazioni di radicalizzazione: per il 47% le divisioni politiche e la violenza che scuotono gli Stati Uniti sono impensabili nella nostra società. E un intervento militare italiano, anche nel caso in cui un Paese alleato della Nato venisse attaccato, è disapprovato dal 43%. Il 66% ritiene che, se per riarmarsi l’Italia fosse obbligata a tagliare la spesa sociale, allora dovremmo rinunciare a rafforzare la difesa”.

E segnali di crisi della nostra democrazia si rinvengono anche in ordine alla partecipazione: alle ultime elezioni politiche del 2022 gli astenuti hanno raggiunto la quota record del 36,1% degli aventi diritto, 9 punti percentuali in più rispetto alle precedenti elezioni del 2018. Alle europee del 2024 il 51,7% degli elettori ha disertato le urne (alle prime elezioni dirette del Parlamento europeo, nel 1979, gli astenuti si fermarono al 14,3%). Nel 2003 il 57,1% degli italiani si informava regolarmente di politica, nel 2024 la percentuale è scesa al 48,2%. I cittadini che ascoltano dibattiti politici erano allora il 21,1% e sono oggi il 10,8%. La partecipazione ai comizi si è dimezzata: dal 5,7% al 2,5% (dal 6,3% all’1,9% tra i giovani di 20-24 anni). E le mobilitazioni di piazza raccolgono sempre meno adesioni: nel 2003 il 6,8% degli italiani aveva partecipato a cortei, vent’anni dopo il 3,3%. Un’eccezione, dunque, le recenti proteste per il conflitto in Palestina.

Anche il 59° Rapporto CENSIS evidenzia la forte divaricazione tra spesa e consumo, con l’inflazione che condiziona pesantemente i comportamenti di consumo delle famiglie. 

Nel 2024 i prezzi erano più alti del 17,4% rispetto al 2019 e il carrello della spesa (i beni alimentari e per la cura della casa e della persona) era più caro del 23,0%. Si è speso di più, ma si è consumato di meno. Nei cinque anni il costo dei generi alimentari è aumentato del 22,2%, ma il volume effettivamente acquistato si è ridotto del 2,7%. La forbice è ampia anche per vestiario e calzature: +4,9% in valore e -3,5% in volume. I servizi assicurativi e finanziari sono aumentati del 47,3% in termini nominali, ma l’utilizzo si è ridotto del 2,0%. I soli servizi finanziari (pari al 3,2% della spesa delle famiglie, ovvero 40 miliardi di euro) hanno registrato un aumento del prezzo del 106,2% nel periodo 2019-2024. Quanto all’immigrazione, la Fondazione di Giuseppe De Rita, evidenzia come la maggior parte dei 5,4 milioni di stranieri che vivono in Italia (il 9,2% della popolazione residente), si trovi in condizioni di marginalità. Il 29,0% dei lavoratori stranieri (che sono in totale 2.514.000, ovvero il 10,5% degli occupati) è a tempo determinato o ha un impiego part time involontario (tra gli italiani la quota corrispondente si ferma al 17,2%). Il 29,4% svolge un lavoro non qualificato (l’8,0% tra gli italiani) e il 55,4% degli occupati stranieri laureati risulta sovraqualificato, ovvero possiede un titolo di studio troppo elevato per il lavoro svolto (il 18,7% tra gli italiani). Il 35,6% degli stranieri vive sotto la soglia della povertà assoluta (il 7,4% tra gli italiani). “Siamo inclini, si legge nel Rapporto, a guardare con favore gli stranieri quando svolgono lavori faticosi e poco qualificati, o quando accudiscono gli anziani e i bambini, ma non siamo propensi a concedere loro gli stessi diritti di cittadinanza degli autoctoni. Il 63% degli italiani pensa che i flussi in ingresso degli immigrati vadano limitati, il 59% è convinto che un quartiere si degrada quando sono presenti tanti immigrati, il 54% percepisce gli stranieri come un pericolo per l’identità e la cultura nazionali, solo il 37% consentirebbe l’accesso ai concorsi pubblici a chi non possiede la cittadinanza italiana e solo il 38% è favorevole a concedere agli stranieri il voto alle elezioni amministrative”.

Per approfondire: https://www.censis.it/rapporto/rapporto-2025/


da Pressenza del 07/12/2025

“E’ solo l’inizio: a marzo di nuovo in piazza contro l’arruolamento. 

Intervista a Hannes Kramer

di Marco Veruggio - Redazione Italia


Finalmente qualcuno si è mosso. Nella palude dalla quale giovani e lavoratori europei assistono, apparentemente impotenti, al riarmo europeo, al ritorno del militarismo e all’ascesa del “partito unico della guerra”, gli studenti tedeschi hanno lanciato un segnale, mostrando che reagire è possibile. Lo hanno fatto in occasione dell’approvazione del Neuer Wehrdienst, la legge con cui il Reichstag tedesco nei giorni ha approvato la reintroduzione del servizio militare, ufficialmente volontaria, ma se non verranno raggiunti gli obiettivi scatterà l’obbligo e la selezione mediante estrazione a sorte, un meccanismo che rende la misura ancor più odiosa agli occhi di molti giovani tedeschi. Gli organizzatori dicono di puntare a coinvolgere sempre più studenti in una mobilitazione che, osservano, è appena iniziata e, promettono, punta ad andare avanti a lungo. 

Hannes Kramer, studente e tra gli organizzatori dello sciopero di venerdì, a cui abbiamo chiesto dati e valutazioni a caldo subito dopo le manifestazioni svoltesi in decine di città tedesche, ci ha annunciato che il prossimo appuntamento sarà il 5 marzo.

Puoi darci alcuni dati sulla diffusione e sulla partecipazione allo sciopero scolastico? Siete soddisfatti e avete già ragionato sui prossimi passi?

In tutta la Germania allo Schulstreik contro il servizio militare obbligatorio hanno preso parte oltre 55.000 persone. In città come Berlino, Amburgo, Monaco e Dresda erano migliaia di persone, ma anche in molti centri più piccoli sono scesi in piazza a centinaia. Per noi questa adesione è un grande successo, che si somma al fatto che nei mesi e nelle settimane precedenti tanti studenti si siano attivati, abbiano imparato a preparare uno sciopero e, così facendo, a difendere i propri interessi. In questo modo sono state gettate le basi per la nascita di un movimento dei giovani, grande e di lungo respiro, contro il servizio militare obbligatorio. I prossimi passi verranno discussi nei comitati di sciopero. Ma una cosa è certa: la prossima giornata di sciopero in tutta la Germania sarà il 5 marzo. Nel frattempo dobbiamo far crescere il nostro attivismo e convincere ancora più studenti.

Chi ha organizzato questa campagna e in che modo? Ci è parso che ci sia un livello centrale, il sito web, e che gli studenti di ogni città abbiano aderito allo sciopero, ma allo stesso tempo si siano organizzati autonomamente. È così?

Lo Schulstreik gegen die Wehrpflicht – sciopero contro l’obbligo di leva – è nato per iniziativa di studenti di diverse città. A livello locale siamo organizzati in comitati di sciopero in cui collaborano studenti di diverse scuole e anche organismi di rappresentanza studentesca. A livello locale i comitati ricevono, con modalità diverse a livello locale, il sostegno di varie organizzazioni giovanili e dalle sezioni locali della campagna “No al servizio militare obbligatorio!” Un ruolo importante viene ricoperto dalle organizzazioni di rappresentanza degli studenti, tra cui la LSV NRW, ma anche da altre organizzazioni giovanili come i Falken o la SDAJ.

Come ha reagito la società attorno a voi: studenti, giovani in generale, lavoratori e altre classi sociali?

La reazione da parte della società è perlopiù positiva. Abbiamo ricevuto il sostegno dei genitori, dei nonni, degli insegnanti, degli studenti, dei sindacati, delle organizzazioni politiche giovanili e di molti altri soggetti. Il governo sta lavorando contro di noi cercando di diffondere la narrazione secondo cui il servizio militare obbligatorio verrà reintrodotto per permetterci di continuare a condurre un’esistenza libera, che significa anche, ad esempio, il diritto di manifestare e di scioperare. Ma è un’uscita di cattivo gusto, dal momento che a Rostock le autorità competenti non hanno autorizzato una sola assemblea in orario scolastico e che in alcune città presidi e insegnanti hanno attivamente ostacolato l’esercizio del diritto degli studenti di riunirsi in assemblea.

Il ritorno del militarismo e la reintroduzione della coscrizione obbligatoria sono un fenomeno europeo – se ne discute anche in Francia e in Italia: pensate di creare delle relazioni internazionali per sviluppare iniziative comuni con studenti di altri paesi?

Il nostro obiettivo è impedire la reintroduzione della coscrizione obbligatoria in Germania. È su questo possiamo esercitare un’influenza più diretta. Ma naturalmente siamo solidali con tutti coloro che nei loro paesi scendono in piazza contro il riarmo e contro la leva obbligatoria. Abbiamo già ricevuto i primi messaggi di solidarietà da altri paesi. Ne siamo felici e saremmo lieti se in futuro sarà possibile creare una rete internazionale e promuovere uno scambio di idee. 

Dopo lo sciopero di ieri che messaggio volete inviare al governo tedesco?

Che continueremo a far sentire la nostra voce. La lotta non si è conclusa con l’approvazione della legge sulla modernizzazione del servizio militare anzi, è solo all’inizio. Non è nel nostro interesse tornare al riarmo e al servizio militare obbligatorio. Il messaggio però dovrà raggiungere soprattutto un numero ancor più elevato di studenti e di sostenitori provenienti da ampi settori della società. Soltanto in questo modo avremo una chance di cambiare le cose.

Volete dire qualcosa anche agli studenti e ai giovani italiani?

Non dobbiamo accettare passivamente qualsiasi cosa. Se il vostro governo vuol mandarvi in guerra, uscite, fatevi sentire, lottate contro questa decisione. Noi giovani tedeschi e italiani condividiamo gli stessi interessi, non vogliamo la guerra e vogliamo avere un futuro. Se ci impegniamo per questo, ciascuno nel proprio paese, ci rafforziamo a vicenda.